Ocula zero, dicembre 2000

Semio-guerra


 

di Federico Montanari



Abstract> Una delle questioni più dibattute da parte di giornalisti ed esperti, durante il conflitto del Kosovo, è stata quella della comunicazione in tempo di guerra.
Crediamo che invece sia importante sottolineare un altro aspetto: la guerra nel tempo della comunicazione. Quali mutazioni sono in atto nelle forme della confrontazione armata?


Un anno dopo. Perché si sappia.

Per riprendere, aggiornandolo, l'aforisma clausewitziano, si tratta di pensare la guerra come proseguimento della comunicazione con altri mezzi: cioè, letteralmente, con altri "media".
Tuttavia, sappiamo come oggi la concezione clausewitziana - ce lo dicono i filosofi (si pensi fra gli altri a M. Foucault) e gli studiosi di strategia - si sia invertita: è la politica oggi a diventare continuazione delle varie forme di conflitto.
Ma attenzione: non è certo il conflitto ad essere presente oggi nella politica; piuttosto, si ha piuttosto una continua reversibilità fra politica e guerra, fra guerra e politica divenuta comunicazione.

È la comunicazione stessa che può diventare proseguimento della guerra con altri mezzi.

Le implicazioni di tale cambiamento sono sia pratiche che teoriche: sia nelle nuove forme di guerra e di comunicazione che nella teoria del conflitto.

Una riflessione sulla guerra ci può forse aiutare a ripensare anche la comunicazione politica. Troppo spesso si è ancora abituati a pensare alla comunicazione come "influenza" (nonostante decenni di studi massmediologici), e ai media come entità onnipotenti (di qui il sopravvivere di mitologie, soprattutto all'interno di una cultura di "sinistra", come quelle dello svelamento, dello smascheramento, della controinformazione e dello sviamento).

Ci sembra invece, fra l'altro, che proprio la guerra del Kosovo abbia mostrato una grande debolezza mediatica, oltre che politica. Ad ogni modo, quella che sta cambiando è la figura stessa della comunicazione: in tempo di guerra e, di conseguenza, nella pace successiva allo stato di guerra; dunque, nel modo stesso di osservare la comunicazione.

Proviamo a dare qualche esempio e a fare alcune considerazioni. In primo luogo in relazione a quella che è stata definita dai teorici statunitensi di strategia la Rivoluzione degli Affari Militari (RMA): il nuovo paradigma e la nuova rappresentazione ecumenica dei militari nordamericani

(Cfr. Maurice Najman, "Les Américaines préparent les armes du XXIe siècle", Le Monde Diplomatique, febbraio, 1998; Alain Joxe, "Représentation des alliances dans la nouvelle stratégie américaine", Le Monde, 23 aprile, 1999).

Tale concezione ci dice come la comunicazione ai loro occhi sarà considerata strategicamente fondamentale.

Questo, di per sé, non è un elemento di grande novità. Ciò che è più rilevante è che la comunicazione può essere valutata come avente al tempo stesso diverse funzioni.

Essa può essere innanzi tutto ambiente in cui si muovono gli attori del conflitto; in secondo luogo mezzo, strumento utilizzabile dai diversi antagonisti .

Ma la comunicazione diviene anche "attore" (nonché posta in gioco per cui lottare). Infatti, nelle sue diverse forme, essa appare come protagonista dei conflitti: essa stessa ne trasforma l'andamento; a questo riguardo si parla dell'arcinoto "effetto CNN" o "curva CNN"

La novità sta soprattutto in questo: è ora la logistica ad entrare nel campo stesso della gestione dei mezzi di comunicazione (così come c'era un "parco mezzi", c'è ora per i militari un "parco media"). Potremmo dire che, dopo una "logistica della percezione" studiata da Paul Virilio - dove le macchine da guerra si sono da tempo appropriate dell'orizzonte percettivo e si dotano di sensi e di modi di rappresentare che rendono la gestione delle cose militari simile ad una grande regia cinematografica - ci troviamo di fronte allo sviluppo di una logistica semiotico-comunicativa.

Il teatro di operazioni si estende e si diffonde al di là del campo di battaglia, il quale viene attraversato da reti di informazione di ogni tipo (anche civili e commerciali ) (vedi Najman, cit.).

Vi è però una questione ancora più generale e di tipo teorico. Essa investe la natura stessa della guerra in quanto forma della confrontazione armata. Se andiamo a vedere la stessa autopresentazione della NATO, il suo organigramma - ad esempio, anche sul sito Web ufficiale dell'alleanza - possiamo cogliere un elemento di novità (www.nato.int).

Non ci troviamo più di fronte ad un'alleanza politico-militare, ma ad una grande "agenzia di gestione mezzi": dove per mezzi, fra gli altri, ma solo fra gli altri, avremo sì, compiti di tipo tradizionale, di tipo militare-strategico, come la gestione dei sensori basati su satelliti, o la gestione integrata di comando e controllo, ma anche compiti, come viene affermato, di consulting !

Tuttavia, è proprio il carattere intrinseco a questa nuova forma della guerra a renderla soft, al di là della pesantezza e della devastazione dei suoi bombardamenti.

Si tratta di una guerra i cui campi di battaglia sono e saranno disseminati nel tempo e nello spazio, e il cui inizio e fine divengono difficilmente delimitabili; anche dal punto di vista del diritto.

Allora, come descrivere meglio questa nuova forma della guerra? E' interessante, a questo riguardo, quanto affermato da due studiosi, John Arquilla e David Ronfeldt, del nuovo paradigma della guerra (in cui rientrano le varie declinazioni di cyberguerra, di infowar, e di netwar):

la prossima guerra "la vincerà chi saprà raccontarla meglio".

Ma cosa significa raccontare?

Non certo chi saprà rappresentarla o fornirne una copertura mediatica sufficiente - illusione e megalomania dei media e dei massmediologi: banale illusione del "tutto è comunicazione"...- ma chi saprà gestire i flussi di segni, i flussi di bombe-segno e di segni come bombe: insomma di tutti i tipi di armi: materiali e immateriali. Il corrispondente RAI da Belgrado, Ennio Remondino, lo ha detto: "queste bombe sono segni, si ammazza per dire": per significare...sempre di più e in modo logisticamente pianificato.

Possiamo allora dire che ci troviamo di fronte a tipi di armi materiali e tipi di armi "testuali", le quali tuttavia spesso si ibridano e si mescolano fra loro.

Si tratta di armi fatte di testi ma dotate di caratteri assai diversi fra loro: ad esempio, spesso si tratta di "enunciati" compositi: bomba più immagine, con la rappresentazione del suo effetto attraverso immagini; o bombardamento più notizia, più commento del portavoce della Nato.

Se la comunicazione è nata - pensiamo agli studiosi di storia dei media, da Mattelart a Flichy - con la guerra, essa oggi ritorna nell'alveo della guerra stessa, trasformata e deformata dal nuovo paradigma bellico.

Quest'ultimo, allora, per riassumere, prevede:

a) Attori ibridi. Non molto tempo dopo la fine della guerra, in un intervento ad un convegno all'università di Bologna, un generale dell'esercito italiano diceva che persino un fante sarà un guerriero a metà se saprà soltanto tirare bombe a mano e non saprà comunicare. Ovvio?

Non più di tanto, poiché una volta si parlava di divisione dei compiti, delle funzioni, del lavoro, anche in guerra, o fra il civile e il militare. Oggi ci troviamo sempre di più di fronte a figure miste: tecnici informatici, esperti di comunicazione - sta già avvenendo - esperti di didattica, analisti e studiosi di ecologia e di urbanistica, nonché hackers, magari arruolati, come è stato riportato recentemente dalla stampa statunitense, per violare i conti bancari di Milosevic.

b) Modelli di guerra compositi. Allora, è la forma stessa dell'obiettivo e della decisione a cambiare: la catena decisionale si trasforma in senso tecnico-funzionale. L'intervento armato diviene così "opzione" possibile fra le altre, rendendosi contingente e "sdrammatizzandosi", rendendosi sempre, in questo modo, disponibile fra un pacchetto di altre opzioni di pari rango - e anche, come si diceva, nel senso di una maggiore ibridazione fra il civile e il militare. Ed è la stessa concezione di intervento che viene a cambiare. (E' di questi giorni la preoccupazione strategica dei militari brasiliani che si chiedono cosa potrà accadere se la "comunità internazionale" comincia a considerare l'Amazzonia, con i suoi alberi e i suoi indigeni Yanomami, un patrimonio dell'umanità suscettibile di diritto di "ingerenza umanitaria": immaginiamo già la soddisfazione di una certa sinistra "buonista" che si riempie la bocca di un umanitarismo astratto e buono per tutte le stagioni, con Sting e tutto quanto...).

La guerra sembra assumere il carattere definitivo e paradossale della controinsurrezione, ma senza più insorti ideologicamente connotati: un intervento del militare nel civile, ordinaria come un intervento di polizia in una qualunque città.

E' dunque lo stesso spazio (e tempo) di intervento a restringersi o a dilatarsi a piacimento dell'attore principale: i Balcani possono equivalere, da un punto di vista semiotico, ad una qualunque periferia, banlieue della megalopoli mondiale. E senza nulla togliere alle responsabilità di macellai, ras di quartiere, come Milosevic.

E allora, la guerra del Kosovo? Essa, apparentemente composta di arcaismi - popolazioni in fuga, gente sgozzata, pulizia etnica (concetto e tecnica in realtà assai moderna) - diviene la guerra ibrida per eccellenza, la guerra "disseminata" e fluida (pur nella sua apparenza "hard"). In essa l'ipertecnologia si è accoppiata al rastrellamento casa per casa, allo stupro o al bombardamento di ponti e strade. Il telefono cellulare usato dagli ufficiali serbi è lo stesso che usiamo nelle nostre città tutti i giorni.

A proposito di un'idea di guerra ibrida, Najman, nell'articolo citato, si chiedeva, prima della guerra del Kosovo, come il '"millenarismo tecnologico" del nuovo modello strategico nordamericano (RMA) si potesse conciliare con forme di guerra, "vecchie" ("agrarie" o "industriali").

Tale nuovo modello di guerra prevede, fra l'altro, il concetto di "zero morti", però strettamente correlato ad una nuova idea di vittoria e di sconfitta: non più distruzione del nemico, ma della sua "degradazione" (morale e materiale).

Con l'ideazione, fra l'altro, di armi (dette non letali), pensate apposta per degradare il nemico sia nelle sue capacità operative che, verrebbe da dire, di "soggetto".

Naturalmente si potrebbe aggiungere che il concetto di "zero morti" vale solo per gli USA e per L'Europa di fronte alla propria opinione pubblica, come sottolineava anche Umberto Eco in un suo articolo (su Le Figaro del 9/5/1999, dove Eco parla di "neo-guerra") e che di morti ve ne sono stati.

Ma non sono più morti, il loro statuto è cambiato; si è trattato di "danni", piccoli errori rispetto alle bombe, divenute esse stesse "soggetti tecnologici" dotati dei più diversi ruoli, nomi e funzioni (genericamente - e mediocremente - "intelligenti", alla grafite, termiche, cluster , ecc.).

E, d'altra parte, la stessa strategia della NATO è stata totalmente "demolitiva" e di degradazione (delle risorse economiche del nemico, oramai degradato ad un livello di mera sussistenza, a paese del terzo mondo così come nella sua "immagine").Dunque, nel caso della guerra del Kosovo, si è trattato di un ulteriore esperimento in direzione di questo nuovo modello di guerra.

Più in generale, quello che è contato è stato in primo luogo il concatenamento ibrido di diverse forme di guerra.

Ed in secondo luogo è stato soprattutto il calcolo sullo "sguardo": su quali effetti ci si attende da chi osserva, dunque, la pianificazione "semiotico-logistica" il suo carattere essenziale. Oggi, in guerra, tutto, sempre di più è fatto - pianificato, calcolato - "a buon intenditore". Perché si sappia.


Federico Montanari