Analisi semiotica dell'articolo di Oriana Fallaci "La rabbia e l'orgoglio"
di Leonardo Martorana
Dalla sua
pubblicazione La Rabbia e l’Orgoglio
ha suscitato feroci e veementi polemiche. È indubbio che un articolo di tale
impatto, scritto a meno di tre settimane di distanza dal drammatico attentato terroristico
che ha messo in ginocchio gli Stati Uniti, non potesse che provocare reazioni
così aspre e violente.
Personalmente ho
avuto occasione di leggerlo soltanto pochi mesi fa; indipendentemente dalla
condivisione o meno dei contenuti, mi ha sùbito colpito l’organizzazione della
struttura discorsiva e le complesse modalità enunciative (anche se in
apparenza, ad una prima lettura, può non sembrare così). È molto interessante
il procedimento veridittivo attraverso il quale la giornalista fiorentina arriva
a rendere accettabili e condivisibili le proprie opinioni personali. Grazie ad
un’accorta articolazione stilistico-retorica del testo, basato in gran parte
sul racconto delle esperienze personali della scrittrice, molti hanno finito
con l’identificarsi in quei pensieri e in quelle idee.
Ho organizzato il lavoro principalmente in tre fasi: in primo luogo ho cercato di illustrare come si sviluppa l’analisi semiotica di un testo, in particolare all’interno del racconto di tipo giornalistico ed informativo (si tratti di un quotidiano, di un giornale radio o di un telegiornale). Successivamente ho schematizzato i vari enunciati in cui l’articolo è strutturato, cercando di compierne una sintesi il più possibile esauriente. Infine mi sono soffermato sulle modalità d’enunciazione, comprendendo anche la nota di prefazione redatta da Ferruccio De Bortoli, il direttore del Corriere della Sera. Durante il lavoro di ricerca, mi sono avvalso di volumi specifici nella semiotica del testo e dei processi comunicativi (vedi bibliografia) ed ho consultato alcuni siti Internet al fine di trovare fotografie e conoscere le opinioni dei lettori. Quest’ultime sono ovviamente molto discordanti: taluni giudicano quell’articolo «un’orribile raccolta d’irrazionali cattiverie», ma si dicono contenti che l’assurda idea di censurarlo non sia andata in porto; altri sostengono invece che l’islamofobia della Fallaci non sia altro che la reazione uguale e contraria rispetto alla occidentalefobia del mondo islamico.
Al di là dei testi
di lettere ed e-mail (che ovviamente rappresentano solo una minima parte dei
pensieri della gente) si evince il forte impatto emotivo che l’articolo di
Oriana Fallaci ha avuto sul pubblico. L’analisi presentata nelle pagine
seguenti costituisce perciò un utile strumento per comprendere cosa ha scosso a
tal punto l’opinione pubblica da arrivare ad aprire un aspro dibattito su una
possibile (e per alcuni assolutamente necessaria) censura dei contenuti.
LA RABBIA E L’ORGOGLIO
1. La semiotica del testo
L’articolo di Oriana
Fallaci dal titolo La rabbia e l’orgoglio
è stato pubblicato sul quotidiano milanese
Il Corriere della Sera il 29 settembre 2001, a soli diciotto giorni di
distanza dall’attentato terroristico al World Trade Center. La scelta della
scrittrice fiorentina di utilizzare un giornale come strumento di diffusione
del proprio messaggio, ci obbliga a compiere alcune riflessioni su questo
importante mezzo di comunicazione e sulla semiotica del testo.
In primo luogo
dobbiamo considerare che i giornali hanno un pubblico vastissimo, in quanto si
rivolgono a lettori caratterizzati da una diversa estrazione economica e
sociale, oltre che da differenti competenze culturali. Un quotidiano, dunque,
si trova a dover utilizzare un notevole numero di sottocodici, tanti quanti sono le potenziali categorie dei suoi
lettori; capita sovente, tuttavia, che alcuni giornali utilizzino un linguaggio
complesso, al fine di selezionare i propri destinatari. Apparentemente parlano
a tutti, in realtà si rivolgono solo ad alcuni: il giornale diventa così il
«bollettino di un gruppo di potere che fa un discorso ad altri gruppi di potere»[1]. In altri casi, invece, supponendo che la gente parli per “frasi fatte”, si riempiono le pagine di riviste e
quotidiani con ovvietà e luoghi comuni, che non aggiungono assolutamente nulla
dal punto di vista informativo o divulgativo.
Paradossalmente una
testata giornalistica (si tratti di un quotidiano, di un giornale radio o di un
telegiornale) si dimostra tanto più onesta quanto più è esplicitamente
schierata a favore di un partito politico; emblematico l’esempio del Tg4, con
Emilio Fede da sempre dichiaratamente
filo berlusconiano.
Ma quali sono le
maggiori differenze tra un quotidiano ed un telegiornale? Molte, sia per quanto
concerne le libertà che le costrizioni. Un giornale, ad esempio, permette di
soffermarsi solo sulle notizie che ci interessano o ci colpiscono realmente,
sfogliando le pagine a piacimento. Tale possibilità non è logicamente concepibile
in un qualsiasi telegiornale, dove la successione delle notizie è stabilita ed
obbligata. È pure vero, comunque, che la televisione permette un’attenzione
parziale o distratta (spesso ascoltiamo il TG mentre cuciniamo o siamo
indaffarati nelle faccende domestiche), mentre deve essere solitamente maggiore di fronte ad un quotidiano
(anche il giornale, talvolta, viene letto a
pezzi, scegliendo percorsi personali suggeriti da intestazioni o
occhielli). La cosa molto importante è che le libertà e le costrizioni appena
elencate siano utilizzate per produrre ulteriori significati di tipo
connotativo che si sovrappongono a quelli presenti nel codice linguistico o
iconico.
Per quanto riguarda
la configurazione di un giornale un ruolo determinante è ricoperto dai titoli e
dalle immagini. I primi, attraverso il corpo tipografico, il numero delle
colonne occupate e la grandezza del carattere utilizzato, forniscono il codice
a partire dal quale leggere l’articolo a cui si riferiscono, selezionano il topic informativo della notizia ed il
suo valore emotivo. Le seconde creano un rapporto importante con la parte
verbale, conducendo ad una serie di ulteriori possibili significazioni. È
importante sottolineare che, quando leggiamo un giornale, in particolar modo un
periodico, s’installa una sorta di contatto rituale e giornaliero con l’organo
informativo prescelto; seguendo lo schema del linguista Jakobson (1966)
potremmo affermare di essere in presenza di una funzione fatìca (la funzione della comunicazione tesa a ripristinare un
contatto), riferendoci al patto di fiducia stabilito tra il lettore e la
rivista. Quest’ultima deve perciò rispondere ad una duplice aspettativa:
- di tipo sintagmatico, che tende cioè ad
instaurare legami di tipo logico-narrativo tra l’evento del giorno e quelli dei
giorni precedenti, in modo da ricostruire in un’unica narrazione gli
avvenimenti ricevuti frammentariamente;
- di tipo paradigmatico, legata al fatto che ogni
giornale si presenta con una cadenza regolare, stabilendo così “rapporti periodici”
con i propri acquirenti.
Per venire incontro
a questi due tipi di aspettativa del lettore il giornale deve perciò compiere
altrettante operazioni: offrire un racconto sul mondo esterno, narrando gli
eventi in un tempo e in un luogo oggettivi (ovvero in maniera imparziale
rispetto a sé ed ai propri lettori) e porre l’accento sulla propria esistenza
(soggettiva), ripresentandosi in modo costante e ripetitivo.
Ogni giornale
costruisce la propria immagine e con essa quella del proprio lettore, che chiameremo destinatario modello o enunciatario (il soggetto di stato al
quale è rivolto il messaggio). In base a ciò che si racconta o alle modalità
con cui si tiene un determinato discorso si presuppone un certo target, un pubblico a cui quei racconti
o quei discorsi possano interessare. Si va quindi a costruire e a selezionare,
come già accennato precedentemente, un modello, ovviamente astratto, del
pubblico a cui ci rivolgiamo (al punto che chi non c’entra si auto
esclude), che poi coinciderà in linea di massima con i destinatari empirici
(ossia in carne ed ossa) che leggeranno realmente quel giornale. Diciamo
inoltre che il discorso portato avanti da un giornale ha valore performativo:
non si tratta cioè di una rappresentazione del mondo esterno (spesso distorta o
spettacolarizzata), ma di una semplice traduzione dei discorsi che in quella
stessa realtà, a vari livelli e con differenti competenze, si svolgono
attraverso l’interazione con il giornale stesso (vedremo tuttavia in seguito
che esistono delle eccezioni anche in questo senso).
In un racconto giornalistico possiamo trovare almeno due storie: quella enunciata, riguardante una persona o una situazione del mondo che diventa il tema della storia stessa e quella dell’enunciatore, relativa invece alla figura che all’interno del discorso ha il compito di dare quella notizia.
Dobbiamo sempre
tenere presente che comunicare non significa soltanto trasmettere delle
informazioni, ma è soprattutto dar luogo ad azioni in cui un soggetto operatore
(l’enunciatore) arriva a congiungere
il soggetto di stato (l’enunciatario)
con un oggetto di valore (il messaggio,
che sovente rappresenta, o vorrebbe rappresentare, il valore della verità).
Possiamo anche concepire enunciatore ed enunciatario rispettivamente come
destinante manipolatore (che inscrive
il valore verità nel messaggio e lo propone all’enunciatario) e destinante giudicatore (che accetta o meno il
valore verità che gli è stato proposto). Tra essi (caricati dei valori modali volere, sapere, potere, dovere) viene stipulato un contratto, un accordo più o meno
esplicito sui valori che nel corso del racconto entreranno in gioco. Spesso i
due attanti appena descritti possono arrivare a coincidere: il “mezzobusto” di
una testata giornalistica televisiva, ad esempio, è colui che annuncia le
notizie ed al tempo stesso le commenta.
Leggendo un
qualsiasi articolo è inoltre abbastanza semplice ritrovare i quattro momenti
che, in semiotica, costituiscono lo
schema narrativo canonico:
- la manipolazione avviene quando i due attanti
patteggiano i valori del discorso che poi provvederanno a scambiarsi (valori
etici, ideologici, …). Qui entra in gioco il
fare persuasivo dell’enunciatore;
- la competenza entra in gioco quando il
giornalista, prima di dare una notizia, deve essere in grado di farlo, sia
entrandone in possesso (poter fare),
che esponendola in maniera intelligente (saper
fare);
- la performanza è l’atto di dare la
notizia;
- la sanzione è il momento in cui
l’enunciatario (dotato di fare
interpretativo) giudica l’operato del soggetto operatore, sulla base del
contratto di veridizione.
Ecco quindi che una
notizia può essere completa (se
basata sui momenti sopra elencati),
virtuale (basata sulla manipolazione: sondaggi, previsioni, …), potenziale (basata sulla competenza:
rivelazioni di un pentito, voci di corridoio, …), performativa (basata, come la parola stessa suggerisce, sulla
performanza: omicidio, varo di una legge, …) e cerimoniale (basata sulla sanzione: premiazione, risultati
elettorali, …).[2]
Nell’articolo che ci
stiamo apprestando ad analizzare è presente, in modo ragguardevole, una
componente a cui finora non avevamo ancora accennato: quella patemica o affettiva. Basta sfogliare
una qualsiasi rivista per trovare una sovrabbondanza di emozioni, passioni e
sentimenti. Tale atteggiamento è determinato sia dalla volontà di
spettacolarizzazione, sia dalla necessità più concreta di attirare l’attenzione
del pubblico e tenere quindi il passo con le testate concorrenti. Si evidenzia
così una forte dicotomia, un contrasto tra la trasmissione “nuda e cruda” della
notizia ed il trasporto passionale, indubbiamente necessario a rendere più
appetibile la notizia (se dovessimo costruire un quadrato semiotico porremmo
quindi in contrasto le categorie semantiche
giornalismo tradizionale vs
giornalismo attuale).
Riferendoci
all’articolo La rabbia e l’orgoglio
possiamo notare come Oriana Fallaci riesca addirittura a trasformare in notizia
un sentimento provato dinnanzi ad un evento; c’è un ricorso continuo a stereotipi
patemici ed un’intensificazione delle passioni talvolta portata all’eccesso. La
scrittrice fiorentina mostra ad esempio un sentimento euforico nei confronti
del patriottismo americano e uno disforico (e anche diaforico, cioè di
turbamento) verso i kamikaze o l’indifferenza della nostra nazione.
Il ritmo del racconto è serrato e progressivamente accelerato, i sentimenti predominanti e maggiormente durativi (uno di essi è presente del resto anche nel titolo dell’articolo) sono la rabbia e l’ansia (pensando al presente), la paura e la nostalgia (riflettendo sugli avvenimenti del passato) e la speranza (anche se in minima parte, per quanto riguarda il futuro). Proprio il riferimento ad un tempo futuro, ad “un qualcosa che potrebbe essere”, è necessario per creare una sensazione di attesa e tenere alta nel lettore la tensione informativa.
2. La pertinenza
L’articolo di Oriana Fallaci suscita, in seguito alla sua pubblicazione, violente polemiche. La forza e l’irruenza con le quali la civiltà occidentale viene giudicata superiore rispetto alle altre scuote profondamente l’opinione pubblica. A maggior ragione se pensiamo che sono trascorsi appena diciotto giorni da un terribile attentato terroristico che ha scosso il mondo e che ne è autrice un personaggio da anni estraneo alla scena politico-culturale. La decisione di compiere un’analisi semiotica sul testo di tale articolo è nata dalla volontà di indagare le strutture che ne reggono l’organizzazione discorsiva. Comprendere, in particolar modo, come la scrittrice toscana riesca a rendere condivisibili opinioni personali molto pesanti, facendo peraltro riferimento alla propria esperienza individuale e a particolari situazioni storico-culturali.
3. Sintesi dei temi
3.1. Le prime reazioni
La giornalista
fiorentina apre il suo articolo esprimendo il proprio sdegno e la propria
rabbia verso coloro che hanno gioito per l’attacco terroristico nei confronti
degli Stati Uniti. Inizia così il drammatico racconto di quella mattina
dell’undici settembre e di come, attraverso la televisione, abbia appreso la
tremenda notizia[3]. Il
linguaggio è abbastanza “crudo”, con periodi brevi e veloci, talvolta
totalmente privi di punteggiatura; alcune espressioni inglesi sono inoltre fuse
a quelle italiane. La Fallaci descrive poi alcune esperienze personali legate
alla guerra (in Vietnam e Messico): il numero di vittime che ha visto nella sua
vita - dice - è comunque considerevolmente minore rispetto a quelle (che mai
riusciranno a quantificare) del World Trade Center, cadute durante quella che
lei definisce come una vera e propria
apocalisse.
3.2. I kamikaze
La scrittrice
afferma di non provare alcun rispetto ed alcuna pietà nei confronti dei
kamikaze, definendoli addirittura come «vanesi che invece di cercare la gloria
attraverso il cinema o la politica la cercano nella morte propria ed altrui».
Essa chiama inoltre in causa Arafat (con il quale già in precedenza aveva avuto
accese discussioni), accusandolo di essere solo «un monarca con una
camaleontica abilità nello smentirsi»; «i veri martiri - afferma infine - non
sono certo i kamikaze, ma tutti i passeggeri morti su quegli aerei dirottati».
3.3. Gli Usa colpiti al cuore
La Fallaci sostiene
che più un paese è libero e non governato da un regime di tipo poliziesco, più
è soggetto a massacri e dirottamenti; la vulnerabilità degli Stati Uniti è
stata perciò determinata dalla sua essenza multi-etnica e dal suo rispetto sia
per i cittadini che per gli ospiti (ventiquattro milioni di americani sono
arabi e musulmani). Osama Bin Laden ha saputo colpire gli USA al cuore, in quei
grattacieli di proporzioni gigantesche che sintetizzano la forza, la potenza e
la ricchezza (economica, ma anche sociale) dell’intero continente. Il
linguaggio utilizzato è veloce, amaro ed anche ironicamente pungente.
3.4. Il confronto con l’Italia
La scrittrice tesse
le lodi del sindaco newyorkese Rudolph Giuliani che, come un generale con i
suoi soldati, è riuscito a rimettere in piedi una città apparentemente distrutta;
e loda soprattutto la compattezza, il patriottismo e l’unità degli americani,
già manifestatasi dopo eventi catastrofici come Pearl Harbor, la guerra in
Vietnam o l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Uno scenario - afferma -
profondamente diverso da quello che si sarebbe manifestato nel nostro paese,
così fazioso ed avvelenato da invidie e gelosie, nel quale ciascuno pensa
esclusivamente alla gloria, alla popolarità ed ai propri interessi personali e
dove il tricolore, simbolo dell’unità del paese, appare soltanto in occasione
delle partite della Nazionale di calcio.
3.5. Il confronto con la Francia
Continuano le lodi
nei confronti del popolo americano, un popolo da invidiare e di cui essere
geloso, perché nato da un’idea di libertà sposata ad una di uguaglianza. Qui
c’è un confronto tra la storia americana, fatta di Benjamin Franklin, Padri
Fondatori e Thomas Jefferson, e quella francese, fatta invece di Marat, Danton
e di cupi ed isterici boia del Terrore. Gli americani hanno fatto la guerra con
un foglio che dichiarava la libertà e l’indipendenza dei suoi cittadini ed
affermava i diritti alla felicità e alla vita e non con la ghigliottina, i
fucili o la polvere da sparo. La Fallaci conclude augurandosi che l’Occidente
smetta di aver paura e collabori, a fianco del popolo americano, contro quelli
che definisce come i temibili figli di
Allah.
3.6. L’importanza di allearsi
La scrittrice si
rivolge adesso a tutti coloro che si cullano nella prudenza e nel dubbio,
incapaci di comprendere che è in atto una guerra che mira ad annullare la
nostra libertà, la nostra civiltà, il nostro modo di vivere e persino quello di
morire; una guerra che mira alla conquista del nostro territorio, ma anche a
quella delle nostre anime. Le persone superficiali ritengono che l’America sia
lontana e che non abbia senso allarmarsi, ma in realtà il destino
dell’Occidente è legato a quello degli Stati Uniti molto più di quanto si possa
immaginare. La Fallaci loda quindi Blair per aver rinnovato la propria
solidarietà a Bush, ma critica il premier italiano Berlusconi per il
disinteresse mostrato nei confronti della causa americana; giudica inoltre
incapaci i nostri funzionari e poliziotti, rei di non essere ancora riusciti ad
individuare i complici di Osama Bin Laden nel nostro paese (che quasi
certamente - dice - si annidano nelle varie moschee sparse all’interno della
penisola così come accade nel resto d’Europa). Conclude affermando che «chi non
ha paura della guerra è un cretino, ma ci sono occasioni in cui avere paura è
immorale ed incivile».
3.7. Le due civiltà
È a questo punto che
vengono messe a confronto le due culture, con la scrittrice che afferma
chiaramente la disparità tra il mondo occidentale e quello orientale. Dietro la
nostra civiltà ci sono Socrate, Platone, Leonardo da Vinci, Michelangelo,
Mozart, la Grecia con la scoperta
della democrazia, la Chiesa (che ha praticato l’Inquisizione ma ha anche dato
un grande e fondamentale contributo alla storia del pensiero). Ma cosa c’è
dietro l’altra cultura? Nulla, a parte Maometto ed un Corano che predica il
principio dell’occhio per occhio dente
per dente, della poligamia ed obbliga il chador per il volto femminile. La
scrittrice racconta le proprie esperienze personali in Pakistan, Kuwait, Libia e
Giordania legate al fanatismo religioso, come quando fu trattata alla stregua
di una prostituta per essersi presentata con lo smalto rosso sulle unghie o
quando fu obbligata ad indossare il chador per intervistare Khomeini, leader
iraniano.
3.8. Difendiamo il nostro paese
La Fallaci sottolinea il fatto di essersi sempre comportata correttamente e con rispetto nei paesi stranieri, senza aver mai dimenticato di essere ospite. Questo per sottolineare invece un episodio accaduto a Firenze, città natale della scrittrice - e a suo dire - devastata e orribilmente sfregiata da un gruppo di musulmani somali che protestavano contro il governo italiano. Dopo aver vanamente discusso con il sindaco del capoluogo toscano, invitandolo ad occuparsi della faccenda, la Fallaci decise di intervenire in prima persona, minacciando alcuni poliziotti di bruciare la tenda in cui quei clandestini si erano accampati. Inizia così un lungo monologo sugli scempi e le deturpazioni di cui le maggiori città italiane, culle dell’arte e della cultura mondiale, sono state oggetto da parte delle popolazioni straniere e sull’impossibilità, da parte del nostro paese, di sopportare immense ondate migratorie da parte di persone che pretendono di cambiare il nostro sistema di vita: significherebbe regalare loro l’Italia e buttare via tutto il nostro immenso patrimonio.
3.9. La rabbia e l’orgoglio
La scrittrice
dichiara la propria italianità (giudica l’America come un amante e l’Italia come un
marito al quale rimarrà sempre fedele); tuttavia non riesce a riconoscersi
nell’Italia di oggi, così vigliacca, cattiva e superficiale. Si fa di tutto pur
di stringere la mano ad un divo di Hollywood, ma ci si disinteressa
completamente se Osama Bin Laden riduce New York ad una montagna di cenere. Un
paese senz’anima, privo di coraggio e di dignità, fatto di politici incapaci e
presuntuosi e di giovani che “affogano” nell’ignoranza. Lo sfogo della
scrittrice, dettato dalla rabbia e
dall’orgoglio, si conclude così, con
la speranza di un’Italia ideale simile a quella che lei sognava e alla quale
pensava affettuosamente da bambina.
4. Gli attanti e lo schema narrativo canonico
Se Oriana Fallaci è
il destinante, l’enunciatore del
messaggio, più complesso è individuare l’enunciatario.
Apparentemente tale ruolo sembra essere ricoperto da Ferruccio De Bortoli,
direttore del Corriere della Sera,
alla quale la scrittrice si rivolge più volte (esplicitamente solo nella parte
conclusiva dell’articolo). In realtà il suo messaggio ha l’intento di
estendersi a tutti i lettori italiani che, arrivando a congiungersi all’oggetto
di valore, ne diventano i destinatari veri e propri. È certo che tra il
destinante (il soggetto operatore) e i suoi destinatari (i soggetti di stato)
viene stipulato un accordo implicito, una sorta di negoziazione e di
contrattazione sui valori ideologici, etici e morali che entreranno in gioco
all’interno del racconto-informazione.
La Fallaci mostra,
nel corso del racconto, di possedere un
saper-fare ed un poter-fare
efficienti, una competenza necessaria a padroneggiare la situazione; in
particolare quando si sofferma sulle proprie esperienze personali legate alla
guerra (in Messico, Vietnam, …) e ai complicati rapporti con le altre civiltà.
Ci sono poi una serie di attori - nominati verbalmente o rappresentati visivamente - come i kamikaze, Arafat, Osama Bin Laden, l’indifferenza del popolo italiano, i suoi funzionari ed i suoi poliziotti, la civiltà orientale, ecc., interpretabili narrativamente come attorializzazioni di opponenti che impediscono la concretizzazione dei singoli programmi narrativi d’uso. E gli aiutanti? Anch’essi sono attorializzati, ma sono in numero assai minore. In particolare si riducono a Rudolph Giuliani, il sindaco-eroe capace di rimettere in piedi una città semidistrutta e Tony Blair, uno dei pochi premier europei ad aver concesso il proprio sostegno a Bush. E ovviamente ci sono l’unità, la compattezza ed il patriottismo americani, ai quali la scrittrice dedica gran parte del proprio articolo (non dimentichiamo che da anni la Fallaci vive e lavora a Manhattan, a pochi isolati, tra l'altro, dal World Trade Center).
La giornalista
fiorentina incarna quindi contemporaneamente l’attante del destinante manipolatore e quello del destinante giudicatore: essa inscrive infatti il valore di verità
all’interno del suo messaggio e, attraverso il proprio fare persuasivo lo propone all’enunciatario (il lettore). Allo
stesso tempo offre continuamente commenti personali sugli eventi narrati
(l’articolo è in gran parte costruito sulla
sanzione); si auto proclama “competente” in termini semiotici, di una
competenza costruita sul campo –
grazie all’età e alla malattia, alla conoscenza di guerre e leader politici -
che le dà l’autorità per dire ciò che vuole trasformando, narrativamente, la
propria sanzione in giudizi credibili, verosimili e qualificati. Parte di tali
giudizi sono occultati, altri invece
sono motivati attraverso il riferimento ad uno specifico universo storico e
culturale e, come già ampiamente ripetuto, al proprio vissuto personale:
Rozzi, maleducati. Lo vedi subito che non hanno mai letto Monsignor della Casa, che non hanno mai avuto a che fare con la raffinatezza e il buon gusto e la sophistication. Nonostante i soldi che sprecano nel vestirsi, ad esempio, son così ineleganti che in paragone la Regina d’Inghilterra sembra chic. Però sono riscattati, perdio. E a questo mondo non c’è nulla di più forte, di più potente della plebe riscattata. […] Con i figli di Allah la faccenda sarà dura. Ammenoché il resto dell’Occidente non smetta di farsela addosso.
5. L’analisi del funzionamento discorsivo
L’articolo di Oriana
Fallaci, come già ampiamente ripetuto, uscì sulle pagine del Corriere della Sera la mattina del 29
settembre 2001. Era un sabato mattina, per la precisione, e la scelta non fu
certamente casuale. Il sabato è un giorno prefestivo in cui la maggior parte
della gente non lavora ed ha più tempo libero da dedicare ai propri passatempi
(la lettura dei giornali, ad esempio). Il testo occupava ben quattro pagine,
uno spazio notevole in rapporto al numero complessivo di fogli in un quotidiano
(nel caso della testata milanese circa quarantotto); ciò sottolinea ancor di
più, semmai ce ne fosse stato bisogno, l’importanza attribuita a tale
intervento. Prima di occuparci in maniera approfondita dell’articolo vero e
proprio, è interessante soffermarsi, seppur brevemente, sulla nota di Ferruccio
De Bortoli che lo introduceva.
5.1 La nota introduttiva di De Bortoli
Oriana Fallaci, con
questo straordinario scritto, rompe un silenzio di un decennio. Lunghissimo. La
nostra più celebre scrittrice (lei dice scrittore e non pronuncia più la parola
giornalista), vive buona parte dell’anno a Manhattan. Non risponde al telefono,
apre la porta di rado, esce assai di meno. Non dà mai interviste. Tutti ci
hanno provato, nessuno c’è riuscito. Isolata. Ma la storie e il destino hanno
voluto che il centro della moderna apocalisse si aprisse, come una voragine
dantesca, poco distante dalla sua bella e letteraria abitazione. L’onda d’urto
di quella mattina dell’11 settembre ha sconvolto anche la quiete eremitica ed
ermetica di Oriana. Apre la porta, gesto inconsueto del quale sembra
meravigliarsi. Lo sguardo è dolce e insieme feroce. Oriana lavora da anni a
un’opera molto importante e attesa in tutto il mondo, fra pile di documenti, in
un disordine solo apparente, con fervore guerresco. Le avevo chiesto di
scrivere quello che aveva visto, provato, sentito dopo quel martedì e Oriana ha
raccolto su alcuni fogli emozioni, pensieri. «Su ogni esperienza lascio
brandelli d’anima», aveva scritto qualche anno fa. È ancora vero, verissimo.
Pensieri forti. Dirompenti. Su cui ragionare e riflettere. Sull’America,
sull’Italia, sul mondo islamico. Sulla Patria (sorprendente quel che dice sulla
Patria). Invettive e tesi che nel medesimo tempo sgorgano dal cervello e dal
cuore, o meglio dal cervello attraverso il cuore. «Qualcuno queste cose doveva
dirle. Le ho dette. Ora lasciatemi in pace. La porta è chiusa di nuovo. E non
voglio riaprirla», sbotta. I suoi soliti artigli. Farà discutere. Eccome. (Ferruccio De Bortoli)
Nella prima parte De
Bortoli traccia un sintetico ritratto della Fallaci, sufficiente tuttavia a
circondarla di un’aura di mistero. La
descrive infatti come una persona misantropa, isolata dal mondo e restìa a
rapportarsi con gli altri («Non risponde al telefono, apre la porta di rado,
esce assai di meno. Non dà mai interviste»). Acquisisce perciò ancora più
prestigio il quotidiano, attorializzato nella persona del suo direttore, che è
riuscito a strappare una rarissima intervista alla giornalista fiorentina
(«tutti ci hanno provato ma nessuno ci è riuscito»). Questi aspetti contrastano
comunque con altri che la fanno apparire più simile alla gente comune e quindi
più vicina al loro pensiero: lo stupore provato nell’aprire la porta, lo
sguardo dolce, il disordine. I periodi sono brevi e conferiscono un senso di
progressiva accelerazione; molti termini fanno implicito riferimento
all’attentato terroristico (o comunque al clima di guerra e di violenza che lo
ha circondato): apocalisse, voragine dantesca, onda d’urto, sguardo feroce, fervore guerresco, brandelli d’anima.
La seconda parte è
basata sull’11 settembre, sempre riferito, tuttavia, al punto di osservazione
di Oriana Fallaci: cosa ha visto, quali emozioni ha provato, in che modo si è
convinta a collaborare scrivendo le proprie sensazioni per il Corriere. E‚ messo in evidenza il suo
stile forte e violento, ma soprattutto sincero, che rappresenta ciò che tutti
pensano ma non hanno mai avuto il coraggio di dire, forse per paura o per
vigliaccheria («qualcuno queste cose doveva dirle»). Nella parte finale De
Bortoli presagisce le discussioni e le polemiche che tale scritto provocherà
nell’opinione pubblica («Farà discutere. Eccome»). In effetti nei giorni che ne
seguirono la pubblicazione la redazione si trovò sommersa con lettere di
protesta, ma anche di ammirazione, da parte dei lettori; per fronteggiarle
intervennero autorevoli giornalisti come Angelo Panebianco e Sergio Romano e fu
istituito un forum di discussione.
5.2 Il procedimento veridittivo
Oriana Fallaci apre
il suo articolo rivolgendosi con tono confidenziale ed amichevole al direttore
del Corriere («mi chiedi di
parlare»), l’unico che l’ha convinta a rompere un silenzio che durava ormai da
molti anni e che si era imposta per essere accomunata - dice - alle cicale. Il termine, ripetuto anche in
un secondo momento, non è casuale, ma allude (evocando la celebre favola di La
Fontaine) a coloro che si comportano in maniera sciocca e superficiale, senza
riflettere.
La parte che segue è dedicata alla rievocazione di quell’undici settembre, alle sensazioni di paura e di incredulità vissute davanti al televisore acceso, nella propria casa situata nel centro di Manhattan, a pochi isolati dalle Twin Towers. La scrittrice dimostra già ai lettori la propria competenza, accennando alle esperienze di guerra vissute in prima persona a causa del proprio lavoro («Non ero mica in Vietnam, non ero mica in una delle tante e fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia vita!»). Il racconto di quella mattina è richiamato alla mente con toni forti e altamente drammatici: l’aereo che si schianta contro una delle torri («l’aereo s’è infilato nella seconda torre come un coltello che si infila dentro un panetto di burro»), le urla selvagge, le persone che preferiscono gettarsi nel vuoto piuttosto che rimanere intrappolati tra le fiamme. La giornalista fiorentina tenta di dimostrare ancora una volta di conoscere bene ciò di cui parla e di avere l’esperienza necessaria per potersi permettere commenti talvolta pesanti:
Devo dirti che alle
guerre io ho sempre visto un numero limitato di morti. Ogni combattimento,
duecento o trecento morti. Al massimo, quattrocento. Come
a Dak To, in Vietnam. E quando il combattimento è finito, gli americani si son messi a
raccattarli, a contarli, non credevo ai miei occhi. Nella strage di Mexico
City, quella dove anch’io mi beccai un bel po’ di pallottole, di morti ne raccolsero
almeno ottocento. E quando credendomi morta mi scaraventarono nell’obitorio, i
cadaveri che presto mi ritrovai intorno e addosso mi sembrarono un diluvio.
La Fallaci esprime
duri giudizi sui kamikaze, affermando di non provare alcun rispetto o pietà nei
loro confronti. Il paragone con l’eroe piemontese Pietro Micca ed il
riferimento alla seconda guerra mondiale si rendono necessari a far comprendere
come quei piloti suicidi si possano considerare tutt’altro che eroi. Sono solo
individui vanesi - afferma - che aspirano alla gloria e per ottenerla si
servono della vita propria ed altrui. In questo caso la competenza è
manifestata in maniera implicita, ossia mediante il riferimento ad un libro
scritto nel 1990 (Insciallah), in cui
la scrittrice documentò il narcisismo esasperato di alcuni kamikaze prima di
andare a distruggere alcune basi francesi e americane. La giornalista
fiorentina ne approfitta per aprire una parentesi su Yassir Arafat, storico
leader palestinese con cui in passato, durante un’intervista (e qui accenna
all’ennesimo libro, Intervista con la
storia), ebbe roventi discussioni. Questo, che parrebbe un semplice
dettaglio, è invece una notazione necessaria a sottolineare il prestigio e
l’importanza politica di cui ha goduto nella propria vita, tali da consentirle
di parlare di un personaggio così rilevante con toni estremamente dimessi ed
informali. È inoltre nuovamente evidente il ricorso ad eventi tratti dal
proprio vissuto personale, al fine di mostrare al pubblico la propria credibilità
e l’attendibilità delle proprie affermazioni:
Sai, tra me e lui non
corre buon sangue. Non mi ha mai perdonato né le roventi differenze di opinione
che avemmo durante quell’incontro né il giudizio che su di lui espressi nel mio
libro Intervista con la storia.
Quanto a me, non gli ho mai perdonato nulla. Incluso il
fatto che un giornalista italiano imprudentemente presentatosi a lui
come mio amico, si sia ritrovato con una rivoltella puntata contro il cuore.
La seconda parte del
testo è centrata sulla propria ammirazione nei confronti degli Stati Uniti, una
società libera e democratica e forse per questo ancor più “indifesa”: la loro
vulnerabilità nasce infatti dalla ricchezza e dalla potenza che li
contraddistingue. Il filoamericanismo quasi esasperato della Fallaci ha una
funzione ben precisa, in quanto serve a far sì che anche gli europei si sentano
in qualche modo minacciati dall’Islam e considerino ogni attacco subito dagli
USA come un attacco sferrato anche a loro:
Alcuni non sono né contenti né scontenti. Se ne fregano e basta. Tanto l’America è lontana, tra l’Europa e l’America c’è un oceano. Eh, no, cari miei. C’è un filo d’acqua. Perché quando è in ballo il destino dell’Occidente, la sopravvivenza della nostra civiltà, New York siamo noi. L’America siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi, noi tedeschi, noi austriaci, noi ungheresi, noi slovacchi, noi polacchi, noi scandinavi, noi belgi, noi spagnoli, noi greci, noi portoghesi. Se crolla l’America, crolla l’Europa. Crolla l’Occidente, crolliamo noi.
Ciò che comunque maggiormente caratterizza gli Stati Uniti - continua la Fallaci - è la sua essenza multietnica ed il rispetto sempre dimostrato nei confronti degli ospiti stranieri (oltre ventiquattro milioni di arabi-musulmani vivono attualmente nel continente americano), anche a costo di esporsi al rischio di attentati terroristici. Ecco che vengono elencati tutti quelli che sono considerati i simboli della forza e della ricchezza americana: quella scienza e quella tecnologia che hanno stravolto la nostra esistenza quotidiana, ma sopra ogni cosa quell’ammirevole patriottismo che ha permesso di affrontare una vera e propria Apocalisse.
Come un generale con i propri soldati egli non si è perso in chiacchiere, ha valorosamente messo a repentaglio la vita per i propri cittadini ed è riuscito a rimettere in piedi una città in apparenza devastata. La malattia che la accomuna a Rudolph Giuliani sembra rappresentare un ulteriore tentativo di avvicinamento nei confronti dei lettori («è malato come me, pover’uomo. Il cancro che torna e ritorna ha beccato anche lui»), prima di tornare di nuovo a tessere le lodi del popolo statunitense, comparandolo stavolta a quello italiano. La Fallaci ammette in pratica di poter dire ciò che vuole perché ormai vecchia e ammalata; la malattia diventa dunque un elemento che le conferisce umanità, ma soprattutto una grande “competenza” sulla vita, per lo spirito combattivo e risolutivo con il quale sopravvive e l’affronta. Esattamente come hanno fatto gli Stati Uniti (attorializzati nella persona dell’ex sindaco di New York), feriti mortalmente ma subito risollevatisi grazie alla loro volontà non malata e ai loro sani e puri ideali; e al contrario degli “smidollati” europei, (in modo particolare italiani), superficiali e corrotti nei valori e nello spirito. Gli americani si sono dunque uniti nel dolore, senza mai cedere, senza arrendersi un attimo. Sventolando le loro bandiere, cantando l’inno nazionale a squarciagola (entrambi simboli appunto di quel patriottismo tanto celebrato), scavando sino allo sfinimento nelle macerie, per cercare di recuperare qualche superstite. L’Italia è dipinta invece dalla Fallaci come un paese fazioso e superficiale, dove ognuno pensa ai propri interessi personali ed il tricolore viene esibito unicamente in qualche campo di calcio.
Nel suo viaggio all’interno del mondo politico
la scrittrice si scaglia più volte contro i comunisti: esplicitamente quando
accenna alle troppe bandiere rosse viste sventolare durante i cortei ed implicitamente
quando “si dimentica” di inserire l’Unione Sovietica nel gruppo dei paesi
occidentali (nominando tuttavia slovacchi, slavi e polacchi); ricorda inoltre
il padre affermare che «il comunismo invece di riscattare la plebe trasformava
tutti in plebe, rendeva tutti morti di fame». I richiami a familiari ed e agli antenati sono assai
frequenti e si rendono necessari ad aumentare maggiormente le competenze
della scrittrice, a conferire credibilità alle sue opinioni. La storia
personale e familiare della Fallaci - conosce la guerra sin dall’infanzia e
diventa poi una giornalista in prima
linea, - serve ad attestare un giornalismo non improvvisato, ma basato su
una conoscenza degli eventi diretta e sperimentata sulla propria pelle.
A suffragio delle tesi fin qui enunciate (e allo scopo di renderle credibili) la Fallaci fa successivamente riferimento ad un preciso universo storico-culturale. Nel costruire la propria teoria della superiorità americana formula così una lista dei personaggi che hanno fatto la storia di questo paese, l’hanno portato a diventare libero e multietnico come tutti lo conosciamo, un paese che «ha trasformato la plebe in popolo e i sudditi in cittadini». Tutto ciò in contrapposizione al terrore e al sangue della Rivoluzione Francese (non a caso viene criticato anche Jacques Chirac per l’indifferenza mostrata nei confronti della causa americana e per la mancata offerta di solidarietà ed alleanza militare). La Fallaci cerca quindi di scuotere e di attirare l’attenzione dei lettori facendo loro comprendere che la guerra in atto andrà pesantemente ad incidere sulla vita privata e sugli affetti personali, sui divertimenti, sul modo di informarsi e di vestirsi. Il pericolo incombente di un conflitto capace di distruggere il mondo di valori che avremo costruito prende anche la forma di una minaccia di invasione che potrebbe sommergere noi e tutte le nostre ricchezze:
Non vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador, perché andate a teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare? Non vi importa neanche di questo, scemi?
La giornalista si
scaglia poi con il premier Berlusconi e con il suo apparato di funzionari e
poliziotti, colpevoli di non essere riusciti ad individuare i complici di Osama
Bin Laden annidati nelle moschee del nostro paese. La superiorità occidentale
(tecnica, ma anche morale) comincia a configurarsi sempre più chiaramente: l’arte,
la scienza (a cui attribuisce l’enorme merito di averle salvato la vita), la
musica e la tecnologia hanno infatti da sempre caratterizzato la nostra storia,
mentre dietro l’Islam c’è solo la figura di Maometto ed un Corano che porta
avanti un esasperato fanatismo religioso (il chador, il concetto dell’occhio per occhio dente per dente, la
poligamia).
Perché vogliamo farlo questo discorso su ciò che tu chiami Contrasto-fra-le-Due-Culture? Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà fastidio perfino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come se fossero due realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura. […] E poi dietro la nostra civiltà c’è il Rinascimento. C’è Leonardo da Vinci, c’è Michelangelo, c’è Raffaello, c’è la musica di Bach e di Mozart e di Beethoven. Su su fino a Rossini e Donizetti e Verdi e Company. […] E infine c’è la scienza, perdio. Una scienza che ha capito parecchie malattie e le cura. Io sono ancora viva, per ora, grazie alla nostra scienza: non quella di Maometto. Una scienza che ha inventato macchine meravigliose. Il treno, l’automobile, l’aereo, le astronavi con cui siamo andati sulla Luna e su Marte e presto andremo chissàddove. Una scienza che ha cambiato la faccia di questo pianeta con l’elettricità, la radio, il telefono e la televisione. […] Ed ora ecco la fatale domanda: dietro all’altra cultura che c’è? Boh! Cerca cerca, io non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi suoi meriti di studioso.
Del fanatismo islamico di cui parlavamo in precedenza la Fallaci riporta testimonianze molto precise, legate come sempre al proprio vissuto personale. Racconta ad esempio di quando, per intervistare il leader iraniano Khomeini, fu costretta ad indossare il chador e trattata al pari di una prostituta a causa dello smalto rosso sulle unghie. Di Mujib Rahman che a Dacca, capitale dal Bangladesh, aveva ordinato di eliminarla in quanto considerata un’europea pericolosa; del palestinese Habash che le aveva tenuto un mitragliatore puntato alla testa. Se ciò non bastasse a convincere il lettore circa la propria attendibilità viene narrato anche un evento di cronaca (e quindi facilmente testimoniabile): dodici ragazzi giustiziati a colpi di baionetta, alla presenza di ventimila persone inneggianti, una totale mancanza di civiltà che riporta al periodo in cui i cristiani si divertivano a veder bruciare gli eretici.
La giornalista toscana vuole invece far comprendere il rispetto verso la cultura e le tradizioni straniere che l’hanno sempre caratterizzata in qualità di ospite, un riguardo che quasi mai è stato ricambiato. Rivolgendosi ancora a De Bortoli narra un evento accaduto a Firenze, città natale della scrittrice, devastata e orrendamente sfregiata da un gruppo di musulmani somali che si opponevano al nostro governo. Dopo aver vanamente discusso con il sindaco del capoluogo toscano, invitandolo ad occuparsi della questione, decise di intervenire in prima persona, minacciando alcuni poliziotti di bruciare la tenda in cui quei clandestini si erano accampati. Inizia così un lungo soliloquio sugli scempi e le deturpazioni di cui le maggiori città italiane, culle dell’arte e della cultura nel mondo, sono state oggetto da parte delle popolazioni cosiddette ospiti e sull’impossibilità di sopportare ulteriormente ondate migratorie da parte di persone che pretendono di cambiare il nostro sistema di vita: vorrebbe dire regalare loro l’Italia e buttare via il nostro straordinario patrimonio. La scrittrice intenderebbe rappresentare il pensiero di molti lettori, stanchi di sopportare lo “straniero cattivo” che bivacca per le strade, ruba loro il lavoro, rovina le città, ma incapaci a quanto pare di affermarlo apertamente per paura di essere giudicati in maniera negativa. Le prese di posizione della Fallaci potrebbero ovviamente essere accusate di volgare razzismo, cosa che pericolosamente non accade perché essa espone e prova le sue affermazioni, permettendosi di dire ciò che molti pensano ma non dicono (e fornendo loro “buoni argomenti”). E il fenomeno dell’emigrazione italiana nella seconda metà dell’Ottocento? Quello - secondo la giornalista - fu voluto dagli americani stessi, con una precisa legge del Congresso atta a ripopolare un continente ancora molto giovane. Dato che l’identità occidentale è assai fragile, essendo costruita sul privilegio materiale, la Fallaci compie il tentativo di fondarlo anche sul dato religioso; nonostante il proprio ateismo c’è infatti una rivalutazione del cristianesimo (accompagnata addirittura da una critica nei confronti del Pontefice, per il suo presunto eccesso di tolleranza nei confronti degli immigrati):
Sebbene al cattolicesimo non abbia mai perdonato le infamie che m’ha imposto per secoli incominciando dall’Inquisizione che m’ha pure bruciato la nonna, povera nonna, sebbene coi preti io non ci vado proprio d’accordo e delle loro preghiere non sappia proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto. Mi accarezza il cuore. Mi piacciono pure quei Cristi e quelle Madonne e quei Santi dipinti e scolpiti. Infatti ho la mania delle icone. Mi piacciono pure i monasteri e i conventi. Mi danno un senso di pace, a volte invidio chi ci sta. E poi ammettiamolo: le nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle sinagoghe.
La scrittrice
termina dichiarando la propria fedeltà all’Italia e l’amore nei confronti dei
simboli per i quali i propri antenati avevano combattuto (l’inno di Mameli e il
tricolore, che rappresentano anche, nell’immaginario comune, il sentimento
patriottico). Raccontando la propria partecipazione alla Resistenza, dice di
non riuscire a riconoscersi nell’Italia odierna, così vigliacca e superficiale.
Un paese senz’anima, privo di coraggio e di dignità, fatto di politici incapaci
ed arroganti e di giovani che “annegano” nell’ignoranza. Lo sfogo della
scrittrice, dettato dalla rabbia e
dall’orgoglio, si conclude con la
speranza di un’Italia coraggiosa e dignitosa, simile a quella ideale che lei
sognava e alla quale pensava affettuosamente da bambina.
Ed ecco nuovamente il riferimento alla capacità di reazione americana, alla forza e all’integrità che permettono di superare - come d’altronde hanno fatto lei e Giuliani con la malattia - ogni tragedia e di rimettersi in piedi).
5.3 Breve analisi stilistico-retorica
Come più volte accennato
il testo di Oriana Fallaci presenta un’organizzazione discorsiva abbastanza
complessa, soprattutto per quanto riguarda la sua struttura stilistica e
retorica. Già ad una lettura superficiale, infatti, ci rendiamo conto dei
molteplici espedienti che la scrittrice utilizza per dilatare l’articolo:
digressioni, insistenze, esempi personali, ampliamenti verbali e concettuali di
ogni genere. Un esempio emblematico è rappresentato dal passo che segue:
[...] Noi italiani, noi francesi, noi inglesi, noi tedeschi, noi austriaci, noi ungheresi, noi slovacchi, noi polacchi, noi scandinavi, noi belgi, noi spagnoli, noi greci, noi portoghesi. Se crolla l’America, crolla l’Europa. Crolla l’Occidente, crolliamo noi.
È evidente come il
lungo elenco non corrisponda altro che alla locuzione “noi europei”, estesa in
maniera esasperata per conferire forza ed enfasi al concetto. Leggendo La Rabbia e l’Orgoglio c’è chi ha
accusato la Fallaci di aver ridotto al minimo il contenuto informativo,
riducendolo ad una serie d’episodi di cui sembra essere sempre e comunque
l’assoluta protagonista. A dimostrazione delle tesi esposte presenta eventi
legati al vissuto e all’esperienza personale, ma raramente li espone basandosi
su argomentazioni razionali o documentate. Salta immediatamente all’occhio il
modo in cui la scrittrice reclama continuamente l’attenzione su di sé. Lo fa
con un linguaggio colloquiale ed informale, utilizzando i luoghi comuni dell’uomo della strada: «mi beccai un bel po’
di pallottole», «sai tra me e lui non corre buon sangue», «a parlare con Arafat
mi viene la febbre», «a pedate nel posteriore per cretineria», «sor Giuliani
per cortesia, ci dice come si fa?», «mi sono sempre sentita nervosetta».
Mostrandosi come una persona senza peli sulla lingua, cerca di rappresentare il
pensiero e le idee della gente, accattivandosi così la loro simpatia.
La retorica
utilizzata della Fallaci è fatta soprattutto di stereotipi e di un martellante
utilizzo dell’enumerazione (riepilogo
ordinato dei punti salienti di un discorso precedente) e dell’anafora (termine che rimanda ad una
parola, a una frase o ad un gruppo di parole apparsi precedentemente),
necessari a rafforzare attraverso la ripetizione gli effetti patemici o
provocatori che si intendono ottenere. Ecco alcuni esempi chiarificatori:
«Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra
scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri».
«Come
la mettiamo con la faccenda del chador?
Come la mettiamo con la poligamia?
Come la mettiamo col veto degli alcolici?»
«Che bel taglio di capelli. Che baffi impomatati, che barbetta leccata, che basette civettuole».
«Mamme, babbi,
fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte e magari i parenti dei
parenti».
«Perché credi che martedì mattina…? Perché credi che contrariamente alle
mie abitudini…? Perché credi che fra
le prime domande che mi ponevo…? E
perché credi che appena apparso il secondo aereo abbia capito?»
«Niente angeli, niente madonne, niente
incenso».
Il testo è inoltre
disseminato dei cosiddetti traslati usuali, figure stereotipe che servono a
rendere maggiormente espressivo il linguaggio, avvicinandosi ancor più a quello
quotidiano della gente: silenzio di tomba, camaleontica abilità, il cane che si mangia la coda, il cancro ha beccato anche lui, trasformarsi in cenere, s’è salvato per un pelo, gente con le palle, … Vale lo stesso
discorso per le moltissime locuzioni icastiche (efficaci) presenti: «quel
rimbambito di Khomeini», «Ammenoché il resto dell’Occidente non smetta di
farsela addosso», «sono così coglioni», «un Paradiso dove gli eroi si scopano
le uri». L’articolo è caratterizzato da un ritmo frenetico, che accelera
progressivamente (climax), le
sensazioni predominanti e maggiormente persistenti sono, a mio avviso, l’ira e
l’inquietudine (riferite al presente), la nostalgia e l’angoscia (con la
riflessione sugli avvenimenti del passato) ed una debole speranza (per quanto
riguarda il futuro), indispensabile per creare una sensazione di attesa e
tenere alta nel lettore la tensione informativa.
Al termine di questo lavoro è giunto il momento di fare alcune considerazioni.
Ad una prima lettura de La rabbia e l’orgoglio sembra complesso compierne un’analisi esauriente, forse perché ci troviamo di fronte ad un articolo che ci colpisce sul piano emotivo per i suoi forti contenuti e per la modalità violenta con cui la giornalista fiorentina li espone. Un’indagine più approfondita mostra però un’interessante organizzazione dei contenuti sul piano discorsivo, stilistico e retorico, una costruzione che veicola i valori indicati facendosi strada attraverso un contratto implicito con il lettore che passa per la condivisione patemica: dal sentire, al credere, al sapere, ecc.
Voglio inoltre aggiungere che, quando si esamina un testo, in particolare a carattere informativo, non è sufficiente soffermarsi sui temi o sulle modalità enunciative, ma occorre anche pensare al contesto in cui esso è stato presentato (pensiamo, in questo caso, al clima di rabbia e paura che aveva seguito l’undici settembre).
Il coinvolgimento patemico è dunque il tramite principale utilizzato dalla scrittrice fiorentina per giungere a conferire autorità e credibilità alle proprie opinioni; ciò è evidente già a partire dal primo paragrafo quando racconta di come, attraverso la televisione, ha appreso la terribile notizia dell’attentato al World Trade Center.
Il linguaggio utilizzato è “crudo”, quasi brutale, e l’intento è quello di colpire il lettore rievocando quelle drammatiche scene: le fiamme che inghiottono gli edifici, le persone che si gettano nel vuoto per scampare ad una morte ben più tragica e dolorosa. La Fallaci afferma di aver assistito in diretta al crollo delle due torri (e non dobbiamo dimenticare che la sua abitazione dista solo pochi miglia dal luogo dell’attentato) e ciò conferisce, se possibile, maggior pathos e tensione alla sua “cronaca”.
Abbiamo più volte ripetuto che, al fine di dimostrare le
proprie competenze, la scrittrice fa sovente riferimento ad avvenimenti legati
al proprio vissuto personale: l’infanzia vissuta nel clima di guerra (aveva
appena dieci anni quando scoppiò il secondo conflitto mondiale) e le proprie
esperienze da giornalista nei paesi stranieri legate al fanatismo religioso. Ma
il culmine dal punto di vista patemico viene raggiunto quando la Fallaci
accenna alla propria drammatica storia, a quel cancro che l’accomuna all’ex
sindaco newyorkese assieme alla forza di volontà e alla combattività con cui
affronta la vita, senza cedere né arrendersi: un chiaro tentativo di
avvicinarsi ai lettori, perché nessun altro elemento è segno di umanità come la
malattia. Tale tentativo, come abbiamo visto
nell’analisi, si è risolto nella grande efficacia della costruzione discorsiva
che ha provocato sui media risposte di ogni tipo (indignate o entusiaste),
sempre e comunque altrettanto appassionate.
CAPECCHI, Vittorio, LIVOLSI, Marino (eds.)
1971 La stampa quotidiana in Italia, Milano: Bompiani.
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1995 “Analisi del primo discorso di Berlusconi. Indagine semiotica sul funzionamento discorsivo”, in LIVOLSI-VOLLI (eds.) 1995.
ECO, Umberto
1971 “Guida all’interpretazione del linguaggio giornalistico”, in CAPECCHI-LIVOLSI (eds.) 1971.
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1979 Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Paris: Hachette (tr. it. Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, ed. P. Fabbri, Firenze: La Casa Husher, 1986).
JAKOBSON, Roman
1963 Essais de linguistique générale, Paris: Minuit (tr. it. Saggi di linguistica generale, Milano: Feltrinelli, 1966).
LIVOLSI, Marino, VOLLI, Ugo (eds.)
1995 La comunicazione politica tra prima e
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MARRONE,
Gianfranco
2001 Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica del testo, Torino: Einaudi.
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1991 Elementi di semiotica generativa.
Processi e sistemi della significazione, Bologna: Esculapio.
POZZATO,
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2001 Semiotica del testo. Metodi, autori, esempi, Roma: Carocci.
VOLLI,
Ugo
1994 Il libro della comunicazione. Idee, strumenti, modelli, Milano: Il
saggiatore.
VOLLI,
Ugo
2000 Manuale di semiotica, Bari: Laterza
di Leonardo Martorana -
II corso ISIA (Istituto Superiore Industrie Artistiche)
[1] Cfr.
Capecchi, Livolsi 1971.
[2] Cfr.
Marrone 2001.
[3] A questo
proposito la Fallaci parla di una sorta di “premonizione” che l’ha portata ad
accendere la televisione: un aspetto da non sottovalutare, in quanto le
attribuisce anche poteri diversi, quali
sensibilità maggiore ed intelligenza, che si aggiungono alla
competenza-esperienza acquisita sul campo.